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Nella fruizione del congedo straordinario per l’assistenza di un familiare con disabilità grave, il concetto di convivenza non può essere ritenuto coincidente con quello di coabitazione.

Così ha stabilito la seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza 24470/2017, intervenendo sul caso di un medico psichiatra, condannato in secondo grado per aver commesso il reato di truffa aggravata ai danni della ASL 3 di Genova. Il medico aveva falsamente asserito di essere convivente con la madre affetta da gravi disabilità, palesando la necessità di assisterla, ottenendo così dall’azienda sanitaria un congedo straordinario retribuito per l’assistenza alla predetta, e svolgendo invece (anche) attività di libero professionista presso la casa dell’anziana genitrice.

Sembrerebbe un altro caso di dipendenti pubblici infedeli che, mentre attestano di svolgere il proprio lavoro presso l’ufficio di appartenenza, contemporaneamente si dedicano ad altra attività, come spesso emerso dalle cronache veicolate dai mezzi di informazione (il pensiero non può che rivolgersi, mutatis mutandis, ai c.d. “furbetti del cartellino”).

Il medico psichiatra, infatti, era residente anagraficamente presso la madre, ma di fatto dimorava con moglie e figlia presso altra abitazione: aveva ottenuto l’autorizzazione a svolgere privatamente la libera professione (intra-moenia), comprensiva della facoltà di utilizzare lo studio professionale presso l’abitazione materna.

Successivamente gli era stato concesso un periodo di aspettativa retribuita al 100% per assistere la propria madre, ai sensi dell’art. 42, comma 5 D.Lgs. 151/2001, ma le indagini avevano consentito di verificare l’utilizzo dello studio presso l’abitazione di quest’ultima per visite private, anche in tale periodo.

La decisione del Tribunale

La sentenza di primo grado, sulla base soprattutto delle dichiarazioni rese dalla badante della madre dell’imputato, aveva ritenuto che questo ultimo avesse proseguito l’attività libero professionale, ma solo sporadicamente e in minima parte rispetto all’attività professionale nel periodo precedente l’aspettativa.

Il giudice di primo grado è giunto alla conclusione che la violazione non fosse così grave da determinare la condanna del medico per il reato di truffa aggravata, avendo l’attività intra moenia di questo ultimo, comunque, consentito di assistere (tra un paziente visitato e l’altro, ci sentiamo di aggiungere) la madre, grazie alla sua quotidiana presenza presso l’abitazione di questa, in tal modo integrando la semplice assistenza domestica della badante.

La Corte d’Appello ribalta la sentenza

Il ragionamento del tribunale di Genova è stato sconfessato dalla Corte d’Appello, non solo contestando il contenuto di alcune testimonianze, ritenute non pienamente genuine, ma soprattutto evidenziando l’assenza dei presupposti per la concessione del congedo retribuito. La Corte d’Appello, infatti, ha precisato che «l’assistenza prevista per la concessione del congedo in questione deve avere necessariamente carattere personale e non delegabile», mentre l’imputato aveva rivolto le sue energie alla cura dei propri pazienti, delegando quella della madre alla badante. Inoltre aveva falsamente attestato di essere convivente con la madre, mentre in realtà lui viveva in un’altra abitazione con moglie e figli.

Ma la Cassazione dà ragione al dipendente

Ribaltando la sentenza di secondo grado, la Cassazione ha dovuto preliminarmente precisare i contorni del concetto di convivenza, requisito necessario per la concessione del congedo straordinario retribuito di cui all’art. 42, comma 5 D.Lgs. 151/2001.

Va da sé che, se si dichiara falsamente di essere convivente con una persona e si chiede un permesso retribuito per assisterla, viene provocato un danno erariale all’ente pubblico di cui si è dipendente, che sborserà una somma di denaro non dovuta sulla base di un inganno dal dipendente ideato. Questo comportamento viene punito dall’art. 640 del codice penale: «Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da trecentonove euro a millecinquecentoquarantanove euro:

1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico [...]».

La difesa dello psichiatra si è basata proprio sulla circostanza che non può riconoscersi alcuna falsità nell’affermazione dell’imputato (contenuta nella dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) di essere convivente con la propria madre, atteso che, in tema di assistenza al familiare portatore di handicap, il concetto di convivenza non può essere ritenuto coincidente con quello di coabitazione, poiché in tal modo si darebbe un’interpretazione restrittiva della disposizione contenuta nel D.Lgs. 151/2001, andando contro il fine perseguito dalla norma di agevolare l’assistenza delle persone diversamente abili. Sarebbe incomprensibile escludere dai suddetti benefici il lavoratore che conviva costantemente, ma limitatamente ad una fascia oraria della giornata, con il familiare affetto da handicap, al fine di prestargli assistenza in un periodo di tempo in cui, altrimenti, di tale assistenza rimarrebbe privo.

La Cassazione, accogliendo tale ragionamento difensivo, ha ritenuto che, conseguentemente, non può ritenersi di per sé falsa l’indicazione del medico di essere convivente con la madre, in quanto non necessariamente incompatibile con la diversa dimora del predetto con moglie e figli, né con la legittima fruizione del congedo di cui all’art. 42 comma 5 del D.Lgs. 151/2001, giacché quel che rileva è, comunque, la prestazione di un’assistenza assidua e continuativa alla portatrice di handicap.

La Cassazione ha quindi riconosciuto tale continuativa assistenza, in quanto non incompatibile con prestazioni lavorative intra moenia dell’imputato, queste ultime effettuate solo sporadicamente.

La Cassazione ha inoltre rilevato un vizio di motivazione della sentenza di secondo grado riguardo la valutazione delle prove acquisite, di talché sarà necessario effettuare un nuovo giudizio presso un’altra sezione della stessa Corte di Appello genovese, pur restando valida la definizione del concetto di convivenza come precisato dalla Corte di Cassazione.

Una circolare della Funzione Pubblica

In merito a questo ultimo requisito si veda la risalente circolare n. 1/2012del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, che ha precisato come il predetto diritto al congedo straordinario ex lege 151/2001, sia subordinato «alla sussistenza della convivenza. Questo requisito è provato mediante la produzione di dichiarazioni sostitutive, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445 del 2000, dalle quali risulti la concomitanza della residenza anagrafica e della convivenza, ossia della coabitazione (art. 4 del d.P.R. n. 223 del 1989). In linea con l’orientamento già espresso in precedenza, al fine di venire incontro all’esigenza di tutela delle persone disabili, il requisito della convivenza previsto nella norma si intende soddisfatto anche nel caso in cui la dimora abituale del dipendente e della persona in situazione di handicap grave siano nello stesso stabile (appartamenti distinti nell’ambito dello stesso numero civico) ma non nello stesso interno. Sempre al fine di agevolare l’assistenza della persona disabile, il requisito della convivenza potrà ritenersi soddisfatto anche nei casi in cui sia attestata, mediante la dovuta dichiarazione sostitutiva, la dimora temporanea, ossia l’iscrizione nello schedario della popolazione temporanea di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 223 del 1989, pur risultando diversa la dimora abituale (residenza) del dipendente o del disabile. Le amministrazioni disporranno per gli usuali controlli al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni (art. 71 del citato d.P.R. n. 445 del 2000)».

È ovvio che questa ultima circolare debba essere letta alla luce delle precisazioni contenute nella sentenza della Cassazione 24470/2017.

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