Come noto, gli ultimi due anni in Italia hanno segnato un punto di svolta normativo nel campo dei diritti civili.
A seguito di numerosi interventi della magistratura, non solo italiana, e dopo un aspro e lungo confronto nelle aule parlamentari e nella società civile, con la Legge 76/2016 sono state disciplinate le convivenze e le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
La legge, lo ricordiamo per inciso, definisce:
- unione civile – «due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni»;
- conviventi di fatto – «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», chiarendo che «per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica».
La legge è stata poi integrata da tre decreti legislativi del 19/01/2017 (pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 2 del 27/01/2017), precisamente:
- il n. 5, che ha recato adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni e integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili;
- il n. 6, che ha disposto modificazioni e integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili;
- il n. 7, che ha introdotto modifiche e riordino delle norme di diritto internazionale privato per la regolamentazione delle unioni civili.
Tutte queste innovazioni non potevano non avere ripercussioni sui rapporti di lavoro dipendente e sui benefici connessi ai legami di tipo familiare, con il riconoscimento di nuove tipologie familiari anche dal punto di vista giuridico.
Può essere utile quindi fare il punto della situazione alla luce degli interventi, non solo normativi, più recenti.
Corte Costituzionale su nuove forme di famiglia e nuovi diritti
Nel numero di novembre avevamo affrontato le conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale n. 213/2016 che, lo ricordiamo, ha dichiarato con sentenza additiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 comma 3 della Legge 104/1992, laddove non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire dei permessi per assistenza disabili.
Avevamo rilevato come, pur in assenza di disposizioni attuative (quand’anche fosse necessario che le sentenze della Corte debbano essere specificate da disposizioni di dettaglio), le sentenze additive, che interpretano le disposizioni di legge ricomprendendo anche disposizioni non espressamente comprese dalla stessa legge, consentano un’applicazione immediata da parte degli operatori del diritto.
Tale intervento, in realtà, tratta solo dei diritti disposti dalla Legge 104/1992, prendendo spunto dal ricorso originariamente presentato.
È importante in proposito ricordare che la medesima Legge 76/2016 già prevede, comunque, l’estensione di diritti ai lavoratori interessati dalle nuove forme di unione familiare, precisamente all’art. 1 comma 20, che così dispone: «Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».
Fermo restando che le disposizioni a favore dei lavoratori vedono operare la sostituzione automatica tra i termini “coniuge” e “parte di unione civile”, la norma non cita espressamente i conviventi, pur trattati nella legge, ma solo le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
In questo senso, la Corte Costituzionale abbraccia un tema di più ampio respiro, ricomprendendo i conviventi tutti tra i destinatari dei benefici di assistenza a favore di soggetti disabili.
Anche alla luce di queste differenza, si auspicava un intervento di chiarimento da parte degli organi istituzionali più prossimi alle amministrazioni, come la Funzione Pubblica per i dipendenti pubblici tutti, il MIUR nel caso delle Istituzioni Scolastiche, o l’INPS nel caso di tutti i lavoratori dipendenti.
L’intervento dell’INPS
Ad oggi, si riscontra l’intervento del solo INPS, che, con la circolare 38 del febbraio scorso, disciplina (per i lavoratori privati) la materia dei benefici concessi dalla Legge 104/1992 e D.Lgs. 151/2001 ai parenti dei disabili, estendendo il diritto anche ai conviventi/parti di unione civile degli stessi, alla luce:
- della sentenza della Corte Costituzionale n. 213/2016;
- della Legge sulle unioni civili n. 76/2016, che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto.
Per quanto riguarda i benefici disposti dalla Legge 104/1992, non si rilevano innovazioni di rilievo rispetto all’estensione operata dalla Consulta.
La circolare interviene, però, anche a proposito del congedo straordinario previsto dall’art. 42 del D.Lgs. 151/2001 a favore dei parenti e affini di soggetti in condizioni di disabilità grave (seguendo un ordine preciso di priorità); l’INPS chiarisce che il congedo in argomento, fattispecie appunto non trattata dalla sentenza della Corte Costituzionale, può essere concesso alla parte di unione civile in posizione di parità con il coniuge, ma non al convivente di fatto (figura non ricompresa nell’art. 1 comma 20 Legge 76/2016 sopra citata), e che, comunque, il beneficio non è estensibile alle situazioni di disabilità che riguardino gli affini (es. i genitori dell’unito civilmente), poiché la legge non crea rapporti di affinità con i parenti dell’unito.
Benefici per assistenza disabili per i lavoratori pubblici
L’intervento dell’INPS, viene specificato nella circolare stessa, è rivolto esclusivamente ai lavoratori dipendenti privati, e questo anche se l’art. 38 comma 3 della Legge 104/1992 – disposizione per la Corte Costituzionale illegittima nella parte in cui non preveda l’equiparazione tra conviventi e parenti – rechi espressamente norme per i dipendenti pubblici e privati, e la Corte Costituzionale abbia più volte richiamato il disposto normativo suddetto senza modificarlo né accennare ad una differenza tra le unioni civili dei dipendenti pubblici o privati, e nonostante, ancora, la sentenza della Corte promani da un ricorso presentato in origine da un dipendente pubblico (nella specie ASL Livorno), e, infine, l’INPS gestisca sia i dipendenti pubblici che privati ormai da anni.
Pur sussistendo legittime perplessità in ordine a questa differenziazione, non può evincersi da questo l’assurdo corollario che la portata delle disposizioni valga solo per il settore privato; per quanto riguarda infatti i permessi di cui alla Legge 104/1992 fa fede comunque la sentenza della Consulta, mentre per quanto concerne i congedi è la stessa Legge 76/2016 a disporre l’equiparazione, solo per gli uniti civilmente.
La circolare, si presume, detta disposizioni operative valevoli per il solo settore privato poiché le domande di beneficio sono inoltrate all’INPS nel caso di lavoratori privati, mentre il settore pubblico vede l’intervento dello stesso datore di lavoro.
Ciò specificato, sarebbe comunque auspicabile un intervento di dettaglio da parte istituzionale per i lavoratori pubblici, considerato che in passato (con riflessi ancora oggi) si sono verificati casi di ingiuste esclusioni; ricordiamo la fattispecie del congedo obbligatorio dei lavoratori padri, concesso dalla legge a tutti i neo-padri, dipendenti pubblici o privati, ed escluso ad opera di interpretazioni di funzionari della Funzione Pubblica e dell’INPS per i soli lavoratori pubblici, in attesa di una disposizione di dettaglio che, a distanza di ben quattro anni, non è mai intervenuta.