È spesso difficile, per quanti si relazionano ad un insegnante come utenti o come persone esterne alla scuola, rendersi conto dell’effettiva ampiezza della funzione svolta dal corpo docente, anche se è evidente ai più che tale funzione non è circoscritta alla tenuta delle lezioni ma si estende alle connesse attività preparatorie, contestuali e successive, compresi gli incontri con le famiglie degli alunni.
Risulterebbe arduo stilare un elenco di tutte le crescenti mansioni e responsabilità in capo ad un professionista dell’istruzione che opera all’interno di un’Istituzione Scolastica.
Esiste tuttavia, una qualifica attribuita al docente, quella di “pubblico ufficiale”, che contribuisce più di altre a definirne la complessità.
La definizione di “pubblico ufficiale” è rintracciabile nell’art. 357 del c.p., il quale dispone che «agli effetti della legge penale sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa».
La giurisprudenza, a seguito delle Leggi 86/1990 e 181/1992, ha esteso la qualifica di pubblico ufficiale, inizialmente limitata ad alcuni pubblici dipendenti (es. agli impiegati statali), a tutti quei soggetti che realizzano una “pubblica funzione”, cioè «concorrono a formare la volontà di una pubblica amministrazione», e «sono muniti di poteri: decisionali; di certificazione; di attestazione di coazione» (Cass. Pen. n. 148796/1981).
La specifica acquisizione dello status di pubblico ufficiale da parte della categoria dei docenti è stata definitivamente sancita con la sentenza della Cassazione penale, sez. III, dell’11/02/1992 che ha affermato testualmente: «La qualità di pubblico ufficiale deve essere attribuita a tutti gli insegnanti di scuole statali, in quanto essi esercitano una funzione disciplinata da norme di diritto pubblico e caratterizzata dalla manifestazione della volontà della Pubblica Amministrazione e dal suo svolgersi attraverso atti autoritativi e certificativi [...]».
Il nostro ordinamento definisce quindi “pubblica funzione” anche l’azione didattica e attribuisce agli insegnanti poteri autoritativi e certificativi comportanti responsabilità penali, disciplinari e patrimoniali che dovrebbero essere ben conosciute da ogni docente sin dagli esordi della sua carriera professionale, anche nella fase di precariato, altrimenti definito con linguaggio giuridico “collaborazione anche saltuaria” (Cass. Pen. n. 166013/84).
Un insegnante – specialmente alle “prime armi” – non può ignorare, ad esempio, che eventuali “scorrettezze” (di varia natura) nella compilazione dei registri (attività diretta a documentare un’attività compiuta personalmente dal docente o da terzi in sua presenza), ovvero degli atti relativi all’effettuazione degli esami (attestazioni concernenti la presenza degli alunni, l’interrogazione degli stessi ecc.), possono configurarsi come reato di falsità ideologica in atti pubblici proprio in relazione allo status di “pubblico ufficiale”.
Si ritiene opportuno quindi, in questa sede, analizzare varie situazioni in cui la pubblica funzione esercitata dai docenti mette in campo alcune delle suddette responsabilità.
Il potere disciplinare sugli alunni
Nella casistica che andiamo a trattare assume particolare rilievo il potere disciplinare sugli alunni, anche perché la correttezza del procedimento è garanzia del fatto che non vengano creati pregiudizi nei confronti dello studente, dal momento che le sanzioni disciplinari, al pari di altre informazioni relative al percorso scolastico, vanno inserite nel fascicolo personale.
Per questo motivo, qualora venga comminata ad un alunno una sanzione ritenuta non proporzionale al comportamento scorretto posto in atto, il docente potrebbe essere addirittura accusato di abuso dei mezzi di correzione (con conseguenze penali e civili).
Si sottolinea, quindi, l’importanza di padroneggiare le norme che forniscono importanti linee d’indirizzo in tema di infrazioni disciplinari e relative sanzioni applicabili agli alunni che le commettono.
Va in primo luogo rammentata la necessità che nell’ambito dell’azione disciplinare siano rispettate le norme generali sull’azione amministrativa definite dalla Legge 241/1990.
Innanzitutto, come precisa testualmente la nota MIUR prot. n. 3602/P0 d.d. 4/07/2008: «La sanzione disciplinare [...] deve specificare in maniera chiara le motivazioni che hanno reso necessaria l’irrogazione della stessa (art. 3 Legge 241/1990)».
Anche se le sanzioni disciplinari non sono considerati dati sensibili, deve essere poi prestata attenzione ai casi in cui nel testo della sanzione si faccia riferimento a dati sensibili che riguardano altre persone, applicando in tali circostanze la dicitura “omissis” sull’identità dei soggetti coinvolti.
Approfondendo l’analisi dei comportamenti cui vanno applicate sanzioni, si cita come riferimento generale per le scuole primarie il Regio Decreto 26/04/1928, n. 1297 (tuttora in vigore), mentre per le scuole secondarie di I e II grado si tratta delle norme contenute nello Statuto delle Studentesse e degli Studenti di cui al D.P.R. 24/06/1998, n. 249, cui sono state apportate modifiche e integrazioni con il D.P.R. n. 235 del 21/11/2007.
Quest’ultimo decreto fornisce alle scuole indicazioni finalizzate all’adeguamento dei Regolamenti interni, partendo dal principio che gli stessi non siano «un rinvio generico allo Statuto delle studentesse e degli studenti» ma debbano risultare il prodotto di un lavoro collegiale.
Il decreto in questione fissa gli elementi fondamentali che debbono essere presenti nei Regolamenti, come «la specificazione di doveri e/o divieti di comportamento e di condotta», nonché «le sanzioni da correlare alle mancanze disciplinari» (che debbono avere una «finalità educativa e “costruttiva” e non solo punitiva» e – importantissimo da tener presente – la «non interferenza tra sanzione disciplinare e valutazione del profitto (art. 4, comma 3, D.P.R. 249/1998)».
Rapporto tra comportamento e profitto
Giova a questo punto spendere due parole per stimolare al massimo la riflessione, nell’ambito dei Consigli di Classe, sul rapporto tra comportamento e profitto dell’alunno.
Senza entrare in questioni di etica o di competenza professionale, va rimarcato che non deve mai ritenersi scontata la corrispondenza biunivoca “cattivo comportamento = scarso rendimento”: non è corretto, infatti, nel senso più ampio del termine “amministrativo”, valutare negativamente il rendimento stesso in relazione al comportamento. Molti insegnanti in sede di scrutinio non sono invece esenti da questo “difetto”, non realizzando che tale errore valutativo può comportare, tra l’altro, anche l’attribuzione di un ipotesi di reato.
Le motivazioni delle sanzioni
Il Regolamento – come s’è già detto – deve poi esplicitare inoltre le motivazioni che, nei procedimenti disciplinari, rendono necessaria l’irrogazione delle sanzioni nonché, nei casi più gravi, i motivi per cui «non siano esperibili interventi per un reinserimento responsabile e tempestivo dello studente nella comunità durante l’anno scolastico».
Gli organi competenti ad irrogare le sanzioni
Continuando l’analisi delle indicazioni contenute nel D.P.R. 235/2007, posto che le sanzioni comportanti l’allontanamento dalla comunità scolastica sono riservate alla competenza del Consiglio di Classe e del Consiglio d’Istituto, tra gli elementi presenti nel Regolamento scolastico non deve mancare l’identificazione degli organi competenti ad irrogare le sanzioni «diverse dall’allontanamento dalla comunità scolastica» (ad esempio docente, Dirigente scolastico o Consiglio di Classe).
Infine, un nuovo elemento introdotto dal D.P.R. 235/2007 è la regolamentazione del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, «con specifico riferimento ad es. alla forma e alle modalità di contestazione dell’addebito; forma e modalità di attuazione del contraddittorio; termine di conclusione», nonché le «procedure di elaborazione condivisa e sottoscrizione del Patto educativo di corresponsabilità».
È appena il caso di evidenziare che, se il docente è tenuto a rispettare le procedure stabilite attraverso il coinvolgimento degli Organi Collegiali della scuola, in caso non si sia provveduto a redigere, aggiornare e informare in modo certo tutti i destinatari del Regolamento e degli altri atti sopra indicati, l’Istituzione Scolastica (nella persona del Dirigente scolastico che ne è il rappresentante legale e ha a sua volta, com’è ovvio, la qualifica di “pubblico ufficiale”) è chiamata a rispondere delle suddette carenze o mancanze.
Una sentenza del TAR della Lombardia (ordinanza n. 654/2017, pubblicata il 24/05/2017) mette in luce i principi cui deve ispirarsi la condotta amministrativa da parte dell’Istituzione scolastica nel momento in cui si accinge a emanare una sanzione. Nel testo della sentenza si afferma formalmente che la Scuola deve accertare i fatti in modo completo, evitando punizioni inutili, sanzionando il vero responsabile e alleggerendo il richiamo per gli altri attori coinvolti nella vicenda.
L’azione di accertamento deve quindi prevedere, in caso di più attori nella vicenda, la valutazione delle posizioni di tutti i protagonisti della stessa e consentire a ciascuno di esprimere le proprie ragioni.
L’importanza del rispetto delle procedure
Rispetto a queste ultime considerazioni, si sottolinea l’impegno (anche in termini di tempo) richiesto per rispettare le procedure, anche alla luce dei sempre più numerosi fatti che avvengono quotidianamente nelle nostre scuole.
Si pensi, ad esempio, all’evoluzione tecnologica e al conseguente possesso, sempre più precoce, di cellulari da parte degli alunni: l’utilizzo dei telefoni cellulari durante le ore di lezione è stato vietato da una direttiva del Ministro dell’Istruzione e la contravvenzione a tale norma prevede una sanzione disciplinare. Tuttavia, in caso di sospetto di comportamenti illeciti da parte degli alunni, tra le azioni che nella quasi totalità dei casi un docente non può porre in atto in veste di pubblico ufficiale si annoverano le perquisizioni, con particolare riguardo a quelle effettuate sulla persona.
La perquisizione non autorizzata nelle tasche degli alunni si configura infatti come reato di violenza privata. Se, poi, un alunno viene costretto a togliersi un indumento, si parla addirittura di lesione della dignità personale.
Anche in occasione di un compito in classe o durante gli esami di Stato la perquisizione degli alunni (svolta in modo indiscriminato senza fondati sospetti di violazione) costituisce reato.
La perquisizione risulta quindi abusiva e arbitraria in caso di costrizione o di violazione della libertà personale e può comportare una condanna ad un anno di reclusione (art. 609 del Codice Penale).
Nell’art. 352 del Codice di Procedura Penale vengono citati i soli casi in cui la perquisizione personale può risultare lecita: in caso di flagranza di reato, o quando ci sia una tale urgenza da rendere impossibile un preventivo decreto di perquisizione.
Le perquisizioni, pertanto, sono lecite soltanto in caso di pericolo grave e imminente per l’incolumità degli altri alunni, oppure quando venga colto sul fatto uno studente (es. furto di oggetti o denaro appartenenti ad altri alunni, a docenti o altro personale scolastico).
Anche se è lecito intervenire in queste situazioni, è opportuno che l’insegnante relazioni comunque per iscritto citando esplicitamente i fatti per tutelarsi rispetto ad una possibile accusa di abuso di potere.
La perquisizione, tra l’altro, viene considerata una condotta che lede il diritto alla riservatezza come può esserlo l’imposizione da parte dell’insegnante di esibire il diario per un controllo: il principio che tutela la privacy viene ritenuto dalla giurisprudenza di portata superiore rispetto a quello stabilito nei regolamenti scolastici.
Conseguenze per il mancato esercizio del potere disciplinare
Verrebbe voglia di dire: “Qualche volta, farò finta di non vedere...”
Ma attenzione: può essere molto peggio! Infatti, il mancato esercizio del potere disciplinare può portare a conseguenze ancora più gravi. Ad esempio, non denunciare un atto di bullismo grave o ripetuto può comportare un’accusa di omissione di denuncia.
Infatti, per quanto riguarda gli episodi di bullismo, gli stessi possono essere inquadrati nelle seguenti violazioni del codice penale: percosse e lesioni, art. 581 c.p.; danni, art. 635 c..p.; minacce e molestie, artt. 612 e 660 c.p.
L’art. 331 c.p. prevede che i pubblici ufficiali i quali, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito.
Tale norma vale anche per azioni commesse da minori di 14 anni, nonostante l’art. 97 c.p. ne affermi la loro non imputabilità.
Obbligo di denuncia e segnalazione
Il personale docente e in generale il personale scolastico è obbligato dunque a denunciare le violazioni della legge da parte degli alunni (furti, abusi o molestie sessuali, violenze, danneggiamenti dei beni della scuola), e assolve l’obbligo in questione riferendo al Dirigente scolastico i fatti cui abbiano assistito o di cui siano venuti a conoscenza; il Dirigente scolastico ha a sua volta l’obbligo di denunciare la notizia di reato all’Autorità giudiziaria (o ad altra autorità come ad esempio il Comando dei Carabinieri o la Questura).
Trattandosi di minori, può essere a volte difficile essere certi delle rilevanza penale di alcuni fatti. Si evidenzia, inoltre, il fatto che alla scuola compete pur sempre un preminente compito educativo (che ingloba anche l’aspetto punitivo).
Tuttavia, in caso di sospetto della perseguibilità, ai fini penali, di comportamenti posti in atto dagli studenti è indispensabile agire in modo molto accurato, segnalando al Dirigente scolastico le evenienze riscontrate anche in caso di dubbio, per evitare di incorrere nel reato di omessa denuncia.
L’obbligo di segnalazione, peraltro, riguarda sia i reati commessi dagli alunni sia quelli compiuti ai danni degli alunni da persone esterne alla scuola (es. maltrattamenti ed abusi in famiglia) o all’interno della scuola stessa (es. abuso di messi di correzione da parte di altro docente).
In quest’ultimo caso, bisogna a volte saper superare anche la comprensibile difficoltà di denunciare l’operato di un collega, in quanto il primo interesse da difendere è quello del minore eventualmente danneggiato.
Anche dal punto di vista esclusivamente disciplinare è fatto obbligo, per ciascun insegnante, di dare informazioni rilevanti per un procedimento destinato ad altri colleghi; in questi casi, sono sanzionabili pure le cosiddette “informazioni false o reticenti”.
Sempre nell’ambito disciplinare, il dipendente informato di situazioni illecite (ad esempio, il ritardo in servizio di un collega) è obbligato a testimoniare sui fatti.
La valutazione degli alunni
Tornando alla disamina dei campi in cui si esplica la responsabilità del docente come pubblico ufficiale, andrebbe ancora analizzato il campo relativo alla valutazione degli alunni.
L’argomento richiederebbe una trattazione ampia ed articolata essendo, tra l’altro, di particolare interesse anche in vista delle operazioni di ammissione alla classe successiva o al successivo grado d’istruzione, che tra poco i docenti saranno chiamati a svolgere.
Sembra, pertanto, più opportuno riprendere in un momento successivo tale discorso al fine di trattarlo con adeguato approfondimento.
Non solo responsabilità e obblighi
Per concludere con una nota positiva, è utile sottolineare che la qualifica di “pubblico ufficiale” attribuita agli insegnanti non è soltanto fonte di responsabilità e obblighi.
Da molte parti, infatti, è stato recentemente riportato il parere della Corte di Cassazione che ha ribadito (sentenza n. 15367/2014) che l’offesa rivolta ad un insegnante è perseguibile penalmente anche con la reclusione, ai sensi dell’art. 341 bis del c.p. che così recita: «Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a tre anni».
Dovrebbe essere una notizia confortante per quei docenti/rappresentanti della Pubblica Amministrazione che, negli ultimi mesi, sono stati oggetto di azioni aggressive, anche dal punto di vista fisico, da parte di un’utenza che, un tempo, nutriva rispetto nei confronti della loro categoria.