La Corte di Cassazione si è recentemente occupata, con la sentenza n. 20857 del 26/11/2012, del caso di una dipendente pubblica licenziata, perché scoperta a lavorare presso l’attività della sorella durante il periodo di malattia.
Nel numero di dicembre di Sinergie di Scuola ci siamo già occupati di altre tre sentenze analoghe (una a favore del datore di lavoro, le altre a favore dei dipendenti); quest’ultima sentenza che commentiamo si riferisce specificatamente ai dipendenti statali e ha dato ragione all’Amministrazione.
La decisione della Suprema Corte muove dall'avvenuto accertamento della presenza della dipendente pubblica all'interno dell'esercizio commerciale di proprietà della sorella, sia in orario lavorativo, sia extra lavorativo, e dalla ritenuta irrilevanza della percezione di un compenso continuativo da parte della stessa per l'attività di collaborazione alla vendita di merce prestata. In realtà, ciò che la ricorrente assume di avere sempre contestato non è la circostanza di avere effettivamente dato una mano alla sorella nella gestione del negozio in fase di liquidazione, ma lo svolgimento di attività lavorativa continuativa e retribuita.
A tale proposito, la Corte, oltre a riportare quanto stabilito dal CCNL di riferimento (nella specie, quello del personale dipendente del comparto Regioni ed autonomie Locali), che pone il divieto di attendere ad occupazioni estranee al servizio, richiama anche l'art. 60 del Testo Unico 3/1957, relativo alla disciplina delle incompatibilità, richiamato dall'art. 53, 1 comma del d. Igs. 165/2001 ("Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e ss. del testo unico approvato con d.p.r. 10.1.1957 n. 3"). Tali norme prevedono che l'impiegato non possa esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione, senza alcun riferimento ad attività retribuita, per cui il divieto deve ritenersi assoluto, a prescindere dalla sussistenza o meno di una remunerazione, ovvero di una continuità della prestazione lavorativa diversa da quella espletata alle dipendenze della P.A.
Per la Suprema Corte non assume dunque rilevanza ai fini della causa la circostanza che l’attività non fosse né remunerata né continua, e neppure assume rilievo l'assunto che sul piano procedurale fosse necessaria una preventiva diffida dell'amministrazione, stante l'inderogabilità del divieto sancito dalle norme richiamate. In conclusione, per tali ragioni, il licenziamento della dipendente è legittimo.