In attesa che il processo conseguente alle elezioni politiche ci porti alla legittimazione di un nuovo governo, previo insediamento delle Camere, la probabilità che vi sia un governo di centro-destra e una premier donna sono altissime, quasi certe.
Certamente il nodo-scuola sarà presente nell’agenda del nuovo esecutivo, anche perché in campagna elettorale tutti i leader – in primis quelli usciti vincitori dalle elezioni – hanno espresso posizioni favorevoli alla risoluzione dei problemi ormai endemici nel sistema istruzione italiano.
Le promesse le ricordiamo tutti.
A parte le intenzioni di rivedere i rapporti con il Sindacato e il periodo di chiusura estiva delle scuole – che, sia detto, incidono poco o nulla sulla rilevazione di scarsa qualità dell’istruzione italiana a livello europeo – vengono promesse la risoluzione delle cosiddette “classi pollaio” e l’adeguamento stipendiale del personale della scuola.
Quello che non è dato sapere è con quali risorse potranno essere affrontate le due questioni che pesano – in base ad alcune stime – non meno di 25/30 miliardi.
Si tenga conto che già gli impegni presi dal governo uscente su pensioni e altro prevedono una spesa di circa 40 miliardi a valere sulle finanze del prossimo anno, e possibilmente senza creare nuovo debito. È vero che abbiamo il PNRR, ma questo va utilizzato per la risoluzione di problemi strutturali e quindi per spese di investimento e non certo per spese correnti.
Non si può peraltro sottacere che il documento di economia a finanza, appena approvato, promette di ridurre di oltre mezzo punto percentuale la spesa per l’Istruzione entro il 2025.
Né fa essere ottimisti l’uso dei fondi europei dispersi in mille rivoli verso le “scuole-progettifici”, senza quadri generali di riferimento che consentano di ricondurre gli investimenti verso obiettivi condivisi, sinergici, non ridondanti e cogliendo tutte le possibili economie di scala.
Staremo a vedere e vi terremo informati.