La figura del danno erariale interessa, e intimorisce in un certo senso, ogni dipendente pubblico consapevole del proprio ruolo.
Questa fattispecie consiste, per dirla con parole semplicissime, in un danno alle casse dello Stato, che può essere diretto se causato in via immediata, o indiretto, qualora lo Stato sia costretto a risarcire un terzo e, successivamente, si rivolga al pubblico dipendente causa principale del danno (caso tipico, il danno da risarcimento allo studente per mancata vigilanza dell’insegnante).
Quindi, ciascun dipendente pubblico è responsabile amministrativamente quando causa un danno allo Stato; per l’esatta configurazione del danno, sono comunque necessari alcuni elementi, ovvero:
- un elemento soggettivo consistente nell’aver agito con dolo o colpa grave;
- un elemento oggettivo di concreta esistenza del danno diretta conseguenza di una condotta antigiuridica imputabile al dipendente;
- un rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione.
In maniera assolutamente sommaria, quale ipotesi tipica di danno erariale, può venire in mentre l’impiegato che utilizza sistematicamente, con dispendio di denaro pubblico, il telefono di ufficio per fini personali. La questione, tuttavia, non è sempre così semplice.
Premesso che il danno erariale non sempre è connesso a fattispecie penalmente rilevanti, la figura è oggetto, negli ultimi anni, di declinazione variegata, anche complicata e non univoca, da parte dell’organo deputato a sindacare la responsabilità per danno erariale, ovvero la Corte dei Conti, che ha sviluppato una serie davvero numerosa di possibili configurazioni di danno.
Così, si sono individuate varie tipologie di danno, quali, solo per fare degli esempi assolutamente non esaustivi dell’ampia casistica:
- danno all’immagine: ricorre quando a seguito di sentenza si sia riconosciuti colpevoli di pregiudizio al prestigio e alla reputazione della Pubblica Amministrazione, aggravato dal fatto che sussista anche il clamor fori, ovvero il rilievo mediatico della notizia potenzialmente comportante atteggiamento di sfiducia nelle istituzioni di parte della collettività;
- danno da demansionamento: per demansionamento (o dequalificazione) si intende la sottrazione, da parte del datore di lavoro, di alcune delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore (c.d. demansionamento quantitativo), la diminuzione della rilevanza e della qualità professionale di tali mansioni, ovvero l’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte inizialmente (per queste ultime due ipotesi si parla di c.d. demansionamento qualitativo) – v. Corte dei Conti, sez. Lazio, pronuncia 390/2016;
- danno erariale da disservizio: si configura quando si verifica una perdita o una mancata entrata per una condotta del lavoratore difforme dai propri obblighi di servizio, ed è passibile di numerose declinazioni pratiche (ad esempio, il dipendente che causa dispendiosi interventi tecnici per ripristinare l’efficienza della strumentazione informatica danneggiata da programmi scaricati per fini privati).
L’elencazione potrebbe ricomprendere altre figure (danno da soccombenza giudiziaria, il danno da lesione della concorrenza...) a conferma non solo che la figura del danno erariale, lungi dall’essere tipizzata dalla legge, assume vesti sempre più variegate, ma che chi opera giornalmente per le amministrazioni dello Stato dovrebbe informarsi con cura sui rischi potenziali quotidiani.
Obbligo di denuncia del danno erariale
Con il D.Lgs. 174/2016 è stato approvato il codice di riforma della giustizia contabile, che contiene non solo norme “tecniche”, ma disposizioni di grande interesse per dirigenti e funzionari pubblici.
L’art. 52 del decreto così dispone infatti:
Obbligo di denuncia di danno e onere di segnalazione
1. Ferme restando le disposizioni delle singole leggi di settore in materia di denuncia di danno erariale, i responsabili delle strutture burocratiche di vertice delle amministrazioni, comunque denominate, ovvero i dirigenti o responsabili di servizi, in relazione al settore cui sono preposti, che nell’esercizio delle loro funzioni vengono a conoscenza, direttamente o a seguito di segnalazione di soggetti dipendenti, di fatti che possono dare luogo a responsabilità erariali, devono presentarne tempestiva denuncia alla procura della Corte dei conti territorialmente competente. Le generalità del pubblico dipendente denunziante sono tenute riservate.
2. Gli organi di controllo e di revisione delle pubbliche amministrazioni, nonché i dipendenti incaricati di funzioni ispettive, ciascuno secondo le singole leggi di settore, sono tenuti a fare immediata denuncia di danno direttamente al procuratore regionale competente, informandone i responsabili delle strutture di vertice delle amministrazioni interessate.
3. L’obbligo di denuncia riguarda anche i fatti dai quali, a norma di legge, può derivare l’applicazione, da parte delle sezioni giurisdizionali territoriali, di sanzioni pecuniarie.
[…]
6. Resta fermo l’obbligo per la pubblica amministrazione denunciante di porre in essere tutte le iniziative necessarie a evitare l’aggravamento del danno, intervenendo ove possibile in via di autotutela o comunque adottando gli atti amministrativi necessari a evitare la continuazione dell’illecito e a determinarne la cessazione.
La norma ha il pregio di coniugare in una unica disposizione un obbligo che, precedentemente, trovava fondamento in diverse disposizioni meno “nette”, ma comunque esistenti; certamente, si pongono in capo ai dirigenti obblighi di vigilanza attenta sul proprio personale e sull’andamento dell’azione amministrativa, ma, insieme, si onerano i dipendenti di responsabilità che comportano conoscenze specifiche complesse, tanto più che la denuncia non può concretizzarsi in una informativa basata sul mero sospetto, ma deve consistere, come dispone l’art. 51, comma 2, del decreto appena citato, in una “notizia di danno” che «comunque acquisita, è specifica e concreta quando consiste in informazioni circostanziate e non riferibili afatti ipotetici o indifferenziati».
Un dovere non indifferente, posto a carico delle figure di vertice delle amministrazioni (insieme agli organi di controllo, di revisione e ispettivi), che si accompagna ad altri obblighi di “comunicazione”, rivolte però a tutti i dipendenti.
Obbligo di denuncia di reato
L’art. 361 del codice penale si rivolge, genericamente, alla figura del pubblico ufficiale, prevedendo che lo stesso, qualora ometta o ritardi «di denunciare all’Autorità giudiziaria, o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da trenta euro a cinquecentosedici euro [...]».
La norma, che prosegue prevedendo pene aggravate se colpevoli sono ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, costituisce un tipico esempio di “reato proprio”, ovvero configurabile solo se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale e non destinata, quindi, alla totalità dei cittadini.
È da sottolineare come la figura del pubblico ufficiale sia mutata nel tempo soprattutto ad opera della giurisprudenza, che ha provveduto ad allargarne i confini; se per il codice penale, art. 357, «[...] sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa», per la giurisprudenza della Cassazione tale figura va intesa in senso estensivo, sì da ricomprendere anche quelle figure che solo parzialmente, disgiuntamente tra loro, concorrano a formare l’azione amministrativa; per quanto di nostro interesse, la Cassazione, con la sentenza n. 15367/2014, ha ritenuto pubblico ufficiale l’insegnante della scuola pubblica.
È quindi legittimo considerare come passibile di estensione quasi generale la norma che obbliga i pubblici dipendenti a fare denuncia all’autorità giudiziaria della notizia di reato conosciuta nell’esercizio delle proprie funzioni, anche a prescindere dell’eventuale volontà opposta o dilatoria dei propri superiori.
Atto illegittimo e obbligo di adempimento
Per le sole figure che riconoscono superiori gerarchici, invece, sussiste l’obbligo di ottemperare agli ordini anche se ritenuti illegittimi. Dispone il non abrogato art. 16 del D.P.R. 3/1957, infatti, che «L’impiegato deve eseguire gli ordini che gli siano impartiti dal superiore gerarchico relativamente alle proprie funzioni o mansioni». Tuttavia, tale disposizione va letta in connessione con la successiva, recata dall’art. 17, per cui «L’impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni. Se l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato ha il dovere di darvi esecuzione. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale».
Tale disposizione, letta a sua volta in connessione con l’art. 18 sopra citato in nota, che ricorda la responsabilità di chi ha impartito l’ordine, obbliga il Dirigente che riceva segnalazioni o obiezioni da parte del personale dipendente a gestirle con cautela ed attenzione.
Numerosi sono i casi che obbligano, alla luce di quanto brevemente descritto, a relazionare con le autorità competenti in caso di patologie dell’azione amministrativa, e la casistica è stata recentemente ampliata dalla fattispecie del Whistleblowing, di cui abbiamo già trattato e riparleremo.