Della legittimità del licenziamento per l’uso distorto dei permessi per l’assistenza ai disabili ai sensi della legge 104/92 torna ad occuparsi la Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 17968/2016 ha stabilito che l’utilizzo improprio del permesso previsto dalla legge n. 104/1992 può legittimare il licenziamento.
I giudici hanno respinto il ricorso di una dipendente pubblica che aveva utilizzato complessivamente n. 38 ore e 30 minuti di permesso ai sensi dell'art. 33 L. 104/92, fruiti per finalità diverse dall'assistenza alla madre disabile, e specificamente per recarsi a frequentare le lezioni universitarie di un corso di laurea.
La Suprema Corte ha ricordato che il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa spetta al "lavoratore dipendente ... che assiste persona con handicap in situazione di gravità ... esso è riconosciuto dal legislatore in ragione dell'assistenza, la quale è causa del riconoscimento del permesso”. Tale essendo la ratio del beneficio e in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile.
Non è quindi possibile attribuire al beneficio una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza prestata al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Qualora il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manchi del tutto, come nel caso esaminato (l'accertamento del giudice di merito aveva infatti evidenziato che i permessi erano sistematicamente utilizzati dalla donna per proprie esigenze personali, in situazioni di tempo e di luogo incompatibili con l'espletamento dell'assistenza), non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.
Pertanto, il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente e integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell'indennità e uno sviamento dell'intervento assistenziale.
I permessi devono dunque essere fruiti in coerenza con la loro funzione. In difetto di tale nesso causale diretto tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, devono ritenersi violati i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) sia dell'Ente assicurativo. E quindi il licenziamento è legittimo.