Molti anni fa, nella pedemontana pordenonese, c’era una piccola scuola media che – da sezione staccata – era diventata autonoma e aveva quindi bisogno di rafforzare la propria personalità (non solo giuridica) e cercare le vie migliori da percorrere per i propri studenti.
Uno sforzo collettivo di tutto il personale e della comunità non tardò a dare i frutti sperati: in pochi anni la scuola dimostrò di saper crescere e diventare attraente, non proprio l’ombelico del mondo, ma certamente l’ombelico di un’area geografica marginale, grande nei chilometri quadrati, timida nelle nascite, sostanzialmente povera di “franchis” (il nome friulano tuttora usato per la valuta italiana la dice lunga sulle dominazioni subite nei secoli) eppure estremamente ricca di idee, fermento, vitalità.
Iniziarono gli insegnanti: alcuni di loro, pur percorrendo 50 + 50 chilometri al giorno, non chiesero un comprensibile trasferimento verso casa e costituirono una base stabile, compatta, solida, intelligente e visionaria, capace di immaginare e realizzare progetti e attività in cui credeva, impensabili per i tempi, i luoghi e le risorse a disposizione.
Assieme a loro le bidelle: chiamate con un nome più affettuoso del cosmetico, asettico e contrattualmente corretto “collaboratrici scolastiche”, si sentivano parte di un meraviglioso anche se non semplice mondo ed erano presenti in forme e modi che nessun ordine di servizio potrebbe legalmente imporre e nessun fondo di istituto potrebbe mai compensare.
C’era anche la segreteria: due o tre persone al massimo, perché l’Istituto non aveva grandi numeri, che cambiavano spesso perché la zona era periferica, che vedevano poco i presidi perché incaricati, reggenti, titolari altrove, ma che non esitavano a farsi coinvolgere dagli insegnanti in tutto ciò che forse non era previsto dalla normativa vigente, purché non fosse espressamente proibito.
Non mancavano le strutture realizzate grazie ai fondi del terremoto del 1976: una scuola con tanto spazio disponibile e un corridoio di collegamento tra le elementari e le medie, cortile e prato in cui giocare anche sporcandosi ove possibile, un teatro, una mensa, una palestra, due scuolabus per raggiungere chi era più distante.
Come un ombrello al di sopra di tutto, l’avvio delle LAC, le Libere Attività Complementari, nate come via di mezzo tra il doposcuola e il parcheggio, diventate uno strumento formidabile a servizio della creatività, dello studio, della sperimentazione di un nuovo tempo scuola: dopo il tempo pieno alla scuola elementare, tempo prolungato alle medie con una audace fuga in avanti di sabato libero.
L’offerta formativa, molto prima dei PTOF più arzigogolati, si colorava di esperienze inaudite: inglese come seconda lingua affiancata al tradizionale francese, gemellaggi all’estero, molto prima di Comenius e di Erasmus+, partecipazioni a concorsi artistici e letterari con premi e riconoscimenti nazionali, concerti musicali condivisi da bambini delle elementari e ragazzi delle medie insieme, concreta messa in opera di un curricolo verticale ante litteram diretto dalla medesima insegnante di musica, opere d’arte realizzate con materiali poveri o di riciclo nei laboratori di educazione artistica, riproduzioni similvivaistiche di germogli e kokedama con le piante che le bidelle portavano da casa propria.
Ad arricchire l’insieme, la presenza dei genitori che – tra tutte le altre iniziative – si inventarono e presero cura del passaggio e prestito dei libri di testo, un esperimento di comodato prima che il comodato fosse un servizio finanziato anche con fondi pubblici. Molti di quegli stessi genitori oggi sono nonni e offrono ancora il loro tempo e le loro energie come nonni-vigili nel piazzale della scuola, dove auto, scuolabus e pullman di linea creano un variopinto quanto pericoloso via vai.
Risultato? La scuola era, e rimaneva, di periferia, buona per un tempo scuola utile alle famiglie e – a un occhio superficiale – ai ragazzi meno dotati, a quelli che facevano più fatica con l’italiano e la matematica, a quelli che, dopo, avrebbero probabilmente fatto i contadini e gli operai, come la maggior parte dei loro padri.
Eppure, pian piano, le iscrizioni aumentavano e arrivavano anche da più lontano i ragazzi, gli studenti che amavano leggere, quelli più bravi con il pirografo o le tessere del mosaico, quelli che non riuscivano a stare fermi a lungo seduti su una sedia e si offrivano volontari alle interrogazioni solo per poter fare due passi nell’aula, quelli che avevano sempre fatto tutti i compiti e quelli che non li avevano fatti perché erano andati a raccogliere le patate o le pannocchie, quelli che sceglievano il primo banco e quelli che avrebbero volentieri stazionato dietro la carta geografica, quelli che in classe non erano capaci di dire due parole senza balbettare e che invece sul palco erano in grado di far emozionare le sedie, quelli che ci sentivano poco ma sapevano suonare uno strumento, e alla fine del concerto raccoglievano gli applausi scroscianti che il pubblico aveva imparato a fare nella lingua dei segni.
Probabilmente pochi di loro avevano la media del 9 e quindi pochi avrebbero potuto partecipare all’incontro con il prof. Enrico Galiano riservato proprio ai più “meritevoli”, considerati tali secondo qualche criterio ispirato dai tempi che corrono. E quei professori, proprio come Galiano, non si sarebbero mai sognati di escludere qualcuno sulla base dei voti riportati.
È davvero meritevole di essere riportata per intero la sua promessa:
Io sottoscritto Enrico Galiano non sarò MAI disposto a fare incontri con gli studenti dove alcuni sono ammessi e altri no, in base alla media scolastica, al comportamento, alla razza, alla religione e nemmeno (ammettendo di sacrificarsi un po’) se tifano Inter.
Per la mia esperienza, sono proprio i ragazzi che hanno più difficoltà ad avere più bisogno di queste opportunità. Se li tagliamo fuori, specie quando sono così giovani, non facciamo altro che demotivarli ancora di più e farli sentire esclusi.
E, una volta per tutte: basta con questa bufala dei “più meritevoli”. Specie se il merito è stabilito attraverso la media scolastica.
Penso ai bambini e alle bambine dell’infanzia, o della primaria, che fin da piccoli si sentono parlare di questo “merito”: e quindi vengono abituati fin da piccoli al concetto di premi e punizioni, se fai il bravo ti meriti questo e se non fai il bravo ti meriti quest’altro.
Penso ai ragazzi e alle ragazze più grandi, che alle medie sono buttati nello tsunami della preadolescenza e hanno bisogno di tutto, di affetto, di ascolto, di calma, di bellezza, ma non certo di una linea che divide meritevoli e non meritevoli.
La scuola non è un posto dove si vanno a selezionare i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno.
E si fa aprendo loro le porte, non chiudendole.
Per la cronaca, gli studenti di quella scuola media sono cresciuti e sono diventati contadini, operai, artigiani, medici, ingegneri e insegnanti che lì hanno scelto di tornare a restituire quello che hanno ricevuto, vale a dire affetto, ascolto, calma e bellezza. Molti sono rimasti, mentre altri hanno dovuto emigrare per non dover rimanere troppo a lungo in panchina, ma tutti hanno trovato la loro strada, autentica e unica, sia pure disseminata di buche.
In attesa che anche dalle nostre parti vengano sdoganate motosega e “insolenza artificiale”, ci consoli l’idea che ci sono ancora, e sono molti, gli insegnanti che usano come strumenti privilegiati di lavoro l’umanità, la sensibilità, la comprensione, che coltivano nei ragazzi l’arte di “allenare il muscolo del pensiero astratto” e magari offrono lezioni sulle figure retoriche con i testi di Lucio Corsi, proprio come Galiano.
Insegnanti di cui la scuola ha bisogno come l’aria che respiriamo e di cui gli studenti si ricorderanno a vita, con gratitudine.