Il ddl anticorruzione, trasformato nella legge 190 del 2012 (entrata in vigore prevista per il 28 novembre) ha avuto ampia eco negli organi di informazione, poiché elaborato in uno dei periodi di più feroce polemica contro gli abusi della cosiddetta “casta” e le vicende che hanno visto accrescersi la commistione tra politica e malaffare.
Le misure normative assunte, se da un lato prevedono interventi abbastanza generici per la classe politica, intervengono tuttavia con severità nei confronti dei pubblici dirigenti e impiegati, ponendo innovazioni e regole che vanno analizzate attentamente.
Di seguito riportiamo le principali novità che interessano ogni pubblico dipendente, tralasciando quelle di più stretto interesse della politica e degli apparati ministeriali di vertice, le numerose norme da dettagliare con futuri provvedimenti (es. il codice deontologico) e quelle da approvare su delega legislativa, avendo riguardo particolare agli adempimenti di immediata applicazione e di maggiore interesse per gli istituti scolastici.
Una piccola premessa
Ci si consenta, preliminarmente, una brevissima digressione di tecnica legislativa. Il testo licenziato dalle Camere, e circolante in bozza, si componeva di 27 articoli.
Per motivi ignoti, la pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale ricalca, nella redazione del testo, l’abusato sistema di redazione delle vecchie leggi finanziarie, assai ostico per la leggibilità e la comprensione del testo, ovvero un unico articolo di svariati ed eterogenei commi.
La Guida alla redazione dei testi normativi, pubblicata il 2 maggio 2001 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, proprio sulla redazione del testo legislativo si sofferma con indicazioni precise e davvero interessanti.
Tra queste, quelle di suddividere il testo in articoli con una propria autonomia concettuale, che seguano una progressione degli argomenti trattati. La circolare dispone inoltre di evitare l’uso eccessivo di commi, ritenendo per eccessivo un numero degli stessi superiore a 10.
L’art. 1 delle legge anticorruzione, appunto si compone di 83 commi, e contiene l’ossatura, spiccatamente eterogenea, della legge. Di seguito, gli argomenti maggiormente interessanti ai nostri fini.
Come assicurare la trasparenza
Il comma 15 dell’art. 1 ricorda che la trasparenza dell’attività amministrativa è divenuta da tempo livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, ai sensi dell’art. 117 Costituzione, che ha provveduto appunto a “costituzionalizzare” un principio prima tutelato dalla sola legge 241/90.
Il comma riporta l’obbligo, già previsto, di pubblicare sul sito web istituzionale le informazioni relative ai procedimenti amministrativi, e inoltre impone anche di pubblicare «relativi bilanci e conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini». Il comma 16 continua richiedendo particolare cura, nell’assicurare i livelli essenziali sopra richiamati, ai seguenti procedimenti:
- autorizzazione o concessione;
- scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al D.Lgs. 12/04/2006, n. 163;
- concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati;
- concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del citato D.Lgs. 150/2009.
È di tutta evidenza che la continua legislazione che riguarda l’aggiornamento e le modalità dello stesso sui siti web istituzionali deve necessariamente comportare delle figure redazionali che abbiano le competenze per abbracciare tutti gli ambiti necessari: redazionale-contenutistico (adeguando le proprie conoscenze ai continui adempimenti normativi), tecnico-informatico, e che seguano le regole della comunicazione. Un compito non facile per chi organizza il lavoro in carenza di personale.
Ulteriori obblighi di pubblicazione sui siti web
Posta elettronica certificata
29. Ogni amministrazione pubblica rende noto, tramite il proprio sito web istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere istanze ai sensi dell’articolo 38 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 28/12/2000, n. 445, e successive modificazioni, e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo riguardano.
L’obbligo di istituire una casella di posta elettronica certificata per ogni singola amministrazione è imposizione di legge più volte reiterata da distinti provvedimenti: è imposto dal CAD (Codice Amministrazione Digitale, D.Lgs. 82/2005, art. 6), e richiamato dall’art. 11 legge 69/2009.
La disposizione ultima, che si riferisce a tutte le istanze e dichiarazioni che si debbano presentare ad una pubblica amministrazione, dà per scontata l’istituzione della casella, e obbliga l’amministrazione a renderla conosciuta tramite il sito web, oltre a prefigurare la possibilità di istituirne delle altre.
Diritto di accesso
30. Le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui al capo V della legge 7/08/990, n. 241, e successive modificazioni, in materia di procedimento amministrativo, hanno l’obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica di cui all’articolo 65, comma 1, del codice di cui al D.Lgs. 7/03/2005, n. 82, e successive modificazioni, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase.
La disposizione interviene a proposito del diritto di accesso alla documentazione amministrativa garantito dalla legge 241/1990, e stabilisce che nell’ambito dell’esercizio di tale diritto i cittadini hanno diritto ad avere le informazioni, relative ai provvedimenti emanati e ai procedimenti in corso che li riguardano, anche in relazione ad altri elementi quali lo stato della procedura, i tempi, l’ufficio competente.
Le informazioni devono essere accessibili tramite gli strumenti di identificazione previsti nel CAD, ovvero con pieno riconoscimento della firma digitale, firma elettronica qualificata, carta d’identità elettronica, carta nazionale dei servizi, casella di posta elettronica certificata (purché il titolare sia stato previamente identificato).
Ovviamente la norma non inibisce le canoniche e tradizionali modalità di scambio con i cittadini, quali la frequentazione diretta, la trasmissione postale o via fax, stante anche la scarsissima diffusione tra i cittadini (e nella pubblica amministrazione, come nel caso della carta dei servizi) di questi strumenti di comunicazione.
Obbligo di conclusione del procedimento
La legge 241/1990 viene riformata più volte dalla legge che analizziamo. Uno dei casi riguarda l’obbligo di concludere il procedimento di cui all’art. 2. Il comma 38 introduce una modifica finale all’art. 2 comma 1, che quindi risulta oggi così formulato (le modifiche aggiunte sono indicate in rosso):
1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.
In questo caso il legislatore mutua dal diritto processuale amministrativo i concetti di inammissibilità – irricevibilità – improcedibilità, piuttosto nuovi in materia di procedimento amministrativo.
La norma a prima vista stabilisce un onere ulteriore al funzionario che, in caso in cui la domanda del privato non possa andare avanti (pensiamo ad una richiesta di accesso agli atti, ad esempio, formulata senza indicazione del mittente o senza motivazione) deve comunque non porre nel vuoto l’istanza del cittadino ma concludere il procedimento, anche se in forma semplificata.
La disposizione, che sembra onerare l’amministrazione di ulteriore lavoro anche quando in realtà un procedimento non potrebbe mai nemmeno definirsi tale, può nascondere effetti negativi proprio per l’efficienza amministrativa. Mancando infatti di chiarire i termini elencati (inammissibilità – irricevibilità – improcedibilità), si potrebbe giungere alla conclusione, del tutto conforme al dettato normativo, di impedire il proseguimento di un procedimento quando si potrebbe magari procedere ad una semplice richiesta di integrazione della domanda.
Per fare lo stesso esempio: una richiesta di accesso completamente carente di motivazione dovrebbe essere, a seguire la legge di riforma, immediatamente cassata con un provvedimento espresso, poiché la norma impone di concludere il procedimento, usando una terminologia inequivocabile. Il buon senso amministrativo, invece, e anche chi scrive, suggerirebbero di richiedere l’integrazione della domanda ogni qualvolta sia possibile. La rigidità della norma pare andare in senso contrario.
Ipotesi di conflitto di interessi
Sono contenute nel comma 41:
41. Nel capo II della legge 7/08/1990, n. 241, dopo l’art. 6 è aggiunto il seguente:
«Art. 6-bis. - (Conflitto di interessi)
1. Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Rimanendo ferma la difficoltà nell’individuare la situazione di conflitto d’interessi potenziale, la norma impone un comportamento che già l’ordinaria diligenza suggerisce di utilizzare in qualsiasi situazione di conflitto di interesse che riguardi le figure di responsabilità (e anche quelle operative, verrebbe da aggiungere), ovvero astenersi dal provvedere nelle situazioni di possibile “inquinamento” dell’azione amministrativa.
Autorizzazioni ad altre attività e modifiche all’art. 53 TU Pubblico Impiego
Rimandiamo alla rubrica Focus lavoro di questo mese per l’analisi dettagliata dell’argomento, di grande interesse per i Dirigenti scolastici alle prese con le richieste di autorizzazione per le seconde attività.
Condanne e inibizioni ai pubblici uffici
Vengono disciplinati dei casi di incompatibilità riguardanti determinati incarichi di dipendenti pubblici a causa di condanne per reati contro la pubblica amministrazione. Di seguito la disposizione:
46. Dopo l’art. 35 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165, è inserito il seguente:
«Art. 35-bis (Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici)
1. Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale:
a) non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi;
b) non possono essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all’acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati;
c) non possono fare parte delle commissioni per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché per l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere.
2. La disposizione prevista al comma l integra le leggi e regolamenti che disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari.»
La normativa in questione razionalizza la disciplina delle incompatibilità, già presente in alcune disposizioni, e impedisce ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione di ricoprire molti incarichi, non solo direttivi, senza scadenze temporali. Può essere utile stilare un apposito documento da far firmare ai dipendenti in occasione del conferimento degli incarichi elencati.
La segnalazione degli illeciti
Il comma 51 introduce un argomento nuovo per il nostro ordinamento, oggetto di numerosi approfondimenti, disciplinando la figura del whistleblower (soffiatore nel fischietto). Come riporta il sito www.whistleblowing.it, questo «è il lavoratore che, durante l’attività lavorativa all’interno di un’azienda, rileva una possibile frode, un pericolo o un altro serio rischio che possa danneggiare clienti, colleghi, azionisti, il pubblico o la stessa reputazione dell’impresa/ente pubblico/fondazione; per questo decide di segnalarla».
Nel dettaglio la norma interviene ad integrazione del D.Lgs. 165/2001, e così dispone:
51. Dopo l’art. 54 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165, è inserito il seguente:
«Art. 54-bis (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti)
1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
2. Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.
2. L’adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.
3. La denuncia è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7/08/1990, n. 241, e successive modificazioni».
La disciplina delineata a parere di chi scrive suscita numerosi interrogativi. Vi è da chiedersi, preliminarmente, quale fosse il bisogno della prescrizione stessa, che fa supporre l’esistenza all’interno della pubblica amministrazione di casi di pratiche vessatorie e discriminatorie per coloro i quali denuncino illeciti (da chiunque commessi, anche soggetti privati) conosciuti in occasione del proprio lavoro, essendo peraltro già obbligo di qualsiasi pubblico ufficiale denunciare reati conosciuti svolgendo il proprio servizio, a prescindere dalle eventuali conseguenze.
La disposizione prevista dal comma 51 quindi si applica proprio alle figure di vertice, che devono evitare atteggiamenti mobbizzanti, senza che – si badi bene – nessuna fattispecie tipica di reato sia prevista a carico di chi commetta atti discriminatori nei confronti del denunciante, né tantomeno sia previsto un sistema premiale nei confronti di chi esegue il proprio dovere.
La norma anzi fa salve (giustamente) le ipotesi di diffamazione e calunnia, non chiarisce quale conseguenza possa comportare il denunciare al Dipartimento Funzione Pubblica le discriminazioni subite, e prevede come unico “beneficio” l’esclusione della denuncia dalle ordinarie regole del diritto di accesso. Salvo comunque rendere possibile l’identificazione del denunciante quando la notizia serva, anche solo in parte, per la difesa dell’incolpato (ipotesi che si immagina frequentissima).
Una norma che si reputa quindi di dubbia utilità, anzi che presuppone qualche scenario davvero di ardua configurazione, come appena visto.
Il danno all’immagine
Le disposizioni della legge n. 20 del 1994 in tema di responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici, giudicate dalla Corte dei Conti, viene arricchita dell’ipotesi di danno all’immagine.
Così dispongono i commi 62 e 63 della legge di riforma:
62. All’art. l della legge 14/01/1994, n. 20, dopo il comma 1-quinquies sono inseriti i seguenti:
«1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
1-septies. Nei giudizi di responsabilità aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo di cui all’art. 5, comma 2, del decreto-legge 15/11/1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14/01/1994, n. 19, è concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale».
Il danno all’immagine viene quindi espressamente previsto dal legislatore come causa di risarcimento del danno; la giurisprudenza aveva già configurato più volte tale ipotesi, ma a lungo si era discusso se si configurasse danno all’immagine solo dopo sentenze irrevocabili.
La Corte Costituzionale, con la sentenza di rigetto n. 335/2010, conferma la disciplina per cui il danno all’immagine si configura solo in caso di reato definitivo contro la PA. La normativa di riforma ha sedato tutte le polemiche giurisprudenziali susseguenti, ponendosi in linea con l’interpretazione della Consulta (serve una sentenza passata in giudicato) e fissando anche un quantum di ipotesi risarcitoria.
Riguardo al contenuto della fattispecie, le ipotesi concrete di danno all’immagine sono state più volte evidenziate dalla giurisprudenza.
La Corte dei Conti ultima, ad esempio, con sentenza 228/2012, prevede che lo stesso «assume una sua autonoma rilevanza, rispetto al cosiddetto “danno diretto” (o patrimoniale in senso stretto), e può sussistere anche in assenza di quest’ultimo considerate le connotazioni sue proprie, quale danno patrimoniale autonomo da altri danni erariali con i quali può anche concorrere (es. danno da disservizio e/o da tangente ecc.)».
Si configurerebbe, continua la Corte, come «danno da perdita di immagine pubblica» o, per dirla con le parole della Cassazione richiamate nella medesima sentenza, «discredito sociale [...] nella considerazione collettiva in conseguenza della violazione del bene giuridico, costituzionalmente tutelato, dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione, leso da provvedimenti adottati per interessi privati anziché della collettività, in violazione del doveri d’ufficio e di norme penali».
Modifiche al codice penale reati contro la P.A.
La legge 190 interviene in vari modi a modifica della materia dei reati contro la pubblica amministrazione, inasprendo in molti casi le sanzioni, come nel caso del peculato, della concussione ordinaria e dell’abuso di ufficio, e dando luogo anche a nuove ipotesi di reato, come la discussa “concussione per induzione” e il “traffico di influenze illecite”.
La novella dal punto di vista penale viene analizzata con semplicità e lucidità dall’Ufficio Studi della Corte di Cassazione, con una relazione disponibile a questo link.
Non potendo approfondirla in questa sede, ne consigliamo la lettura sia per l’ampia disamina sulle diverse e nuove ipotesi di reato, sia per l’evidente critica che viene mossa all’azione di Governo e alla legge anticorruzione, in particolare per alcune tipologie di reato, chiaramente, per la Cassazione, inadeguate al fine (è il caso della “corruzione tra privati”, definita da vari commentatori una disciplina di eccessivo favore ai “poteri forti”).