Nel maggio del 2016 la Corte dei Conti ha redatto l’annuale Relazione sul lavoro pubblico, documento che, tradizionalmente, è connotato da due caratteristiche: quello di fotografare con scrupolo e dovizia di dati certi la situazione, non solo contabile, dei più di 3 milioni di lavoratori che costituiscono l’ossatura dello Stato, e quella di essere, sistematicamente, ignorata dai media nazionali, e non solo.
In un Paese che preferisce i fatti di cronaca spicciola all’approfondimento, l’analisi del pubblico impiego condotta dagli studi di confederazioni di artigiani invece che da magistrati dello Stato, le vicende dei cartellini marcatempo di alcuni in luogo di indagini su andamento, problemi e produttività della macchina amministrativa della Nazione, l’analisi della Corte è un faro che dovrebbe guidare l’azione politica di riforma, anzitutto, ma anche offrire spunti di osservazione utilissimi per ogni lavoratore pubblico.
Dall’indagine svolta dalla Corte emergono infatti numerosi elementi interessanti, non solo dal punto di vista contabile. Viene illustrato come, anzitutto, i tanti anni di contenimento della spesa per il lavoro pubblico abbiano prodotto un calo complessivo della spesa stessa ben superiore alle attese (con un risparmio nettamente superiore rispetto a quanto preventivato), sia per il blocco di ogni progressione economica sia per le severe misure di contenimento del turn over; e come le misure restrittive abbiano posto l’Italia tra i paesi più virtuosi per rapporto tra PIL e spese lavoro dipendenti, e perfettamente in linea con altri per rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione.
Di converso, il drastico calo del personale (per la scuola quasi del 9% tra 2008 e 2014), è una delle concause per cui l’Italia, in disparte delle chiacchiere da talk show o delle invettive livorose dei commentatori del web, riscontra un forte rischio in termini di efficienza del lavoro pubblico, per le conseguenze ovvie delle stesse misure: dall’invecchiamento della popolazione dipendente (per esempio, i cinquantenni ministeriali sono circa la metà dei dipendenti, mentre negli altri paesi industrializzati la medesima categoria si colloca al di sotto del 30%), alla preparazione dei dipendenti (la laurea risulta ancora poco richiesta per l’accesso all’impiego pubblico rispetto agli altri paesi), che sconta anche il fenomeno dello “skillmismatch”, ovvero del divario tra titolo di studio posseduto da chi ricopre una funzione e quello effettivamente richiesto.
La più grave conseguenza, quella più evidente approfondita dalla relazione, è che la somma degli elencati e altri fattori denota scarsa attenzione al personale e ad incentivi economici, a detrimento, come ovvio, dell’efficienza, della produttività, della professionalità. Dei servizi resi alla collettività, in poche parole.
L’amara realtà che emerge dalla relazione, di cui consigliamo la lettura, offre uno sguardo amaro sul lavoro pubblico, le cui soluzioni non possono prescindere, come raccomandato dalla stessa Corte Costituzionale ormai ben più di un anno fa, da una rinnovata stagione contrattuale sia normativa che economica, che riscopra la dignità e valorizzi la professionalità di chi lavora con impegno, quotidianamente, nonostante le difficoltà.
Che questo sia l’anno del cambiamento dovrebbe essere l’augurio di tutti.