L'art. 39 del T.U. n. 151/2001 dispone che il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.
Tali periodi di riposo, che hanno la durata di un'ora ciascuno, sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro e comportano il diritto della donna ad uscire dal luogo di lavoro.
Il successivo art. 40 prevede poi che i suddetti periodi di riposo sono riconosciuti al padre lavoratore:
- a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
- b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
- c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
- d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
Mentre le ipotesi a), b) e d) non sollevano particolari problemi applicativi, la stessa cosa non si può dire riguardo al punto c), rispetto al quale la giurisprundenza amministrativa non è concorde.
Nessun dubbio nel caso in cui la madre sia lavoratrice autonoma o libera professionista. Ma se è casalinga, può rientrare nella categoria di lavoratrice non dipendente?
Secondo il Consiglio di Stato sì.
Con la sentenza n. 4618 del 10/09/2014 i Giudici hanno infatti richiamato il principio espresso nella precedente sentenza n. 4293 del 9/09/2008 che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre non sia lavoratrice autonoma m casalinga, si era pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla non lavoratrice dipendente.
Il T.U. è una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia e alla maternità e quindi va interpretata in tal senso, consentendo al padre di beneficiare di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto non lavoratrice dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di "casalinga"), che la distolgano dalla cura del neonato.
A sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione, anche la Corte di Cassazione, con sentenza n. 20324 del 20/10/2005, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principii di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione.
E benchè lo stesso Consiglio di Stato (C.d.S, Sez. I, 22/10/2009, n. 2732) si fosse espresso in senso diametralmente opposto, in questa sede i Giudici decidono di aderire al primo orientamento, perché vicino alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre,"nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente".
Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente, dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Diverso sarebbe se il legislatore avesse usato la formula "nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente". La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa.
Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento, secondo il C.d.S., è più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.
I Giudici non condividono neanche l'assunto secondo il quale "la considerazione dell'attività domestica, come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali", per cui è del tutto incongruo dedurne, coma ha fatto il Giudice di primo grado, "l’oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico" laddove, invece, è dato di comune esperienza che l’attività dalla stessa esercitata in ambito familiare spesso necessita, alla nascita di un figlio, di aiuti esterni (collaboratore/rice familiare e/o baby-sitter), utilmente surrogabili, nel caso delle famiglie mono-reddito, proprio mediante ricorso al godimento dei permessi da parte dell’altro genitore lavoratore dipendente.
Inoltre, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104); e in tale prospettiva sarebbe del tutto irragionevole ritenere che l’onere di soddisfacimento degli stessi debba ricadere sul solo genitore che viva la già peculiare situazione di lavoro casalingo.
Quindi, il beneficio in questione sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell'uno o dell'altro genitore, ma, allorché uno dei due genitori per una ragione qualsiasi non se ne avvalga (perché "non lavoratore dipendente" e dunque anche non lavoratore "tout court"), ben può essere richiesto e fruito dall'altro.