Sinergie di Scuola

Dopo anni di incertezze e di interpretazioni, finalmente la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 95/2016, interviene a proposito del tema del divieto di monetizzare le ferie residue, disposto dalla riforma c.d. "spending review", e considera infondata la questione sollevata, nel 2015, dal Tribunale di Roma.

La decisione si muove perfettamente in linea con le interpretazioni sul punto intervenute in passato da parte del Dipartimento Funzione Pubblica, della Ragioneria Generale e anche di alcune pronunce in sede giurisdizionale; secondo i giudici della Consulta, la legge stessa (ricordiamolo, d.l. 95/2012, art. 5 comma 8), va interpretata correttamente sì da non contrastare con la Costituzione; secondo la Corte infatti la norma prevede che "il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi" sarebbe riservato solo "a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie".

La Consulta propende per la tesi di escludere dal divieto le vicende estintive del rapporto che non dipendano dalla volontà del lavoratore; un'interpretazione siffatta sarebbe in linea con la giurisprudenza europea e della nostra Cassazione, che più volte hanno ribadito l'importanza e l'intangibilità del diritto alle ferie, compreso quando lo stesso si converta nella monetizzazione (dando luogo alle ipotesi di incostituzionalità, appunto, del divieto).

Il caso è chiuso, diremmo, poiché l'intervento della Corte Costituzionale, almeno dal punto di vista istituzionale, non ammette repliche.

Sono però consentite, crediamo, delle critiche dal punto di vista personale, che permangono.

Basta esaminare il testo normativo, che con tenore inequivocabile prevede che i trattamenti sostitutivi sono "VIETATI IN OGNI CASO" e lo sono "ANCHE" nelle ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro siano dovute alla volontà del lavoratore; la legge, quindi, letteralmente dispone che non si possono mai pagare le ferie residue.

Basti pensare, inoltre, al mai chiarito caso del preavviso, che è ipotesi in cui per legge maturano ferie che non si possono fruire (lo dice il codice civile), né monetizzare (lo dice, ancora, la legge e, adesso, la Corte Costituzionale, per cui le dimissioni sono un caso di interruzione volontaria che inibisce la monetizzazione delle ferie residue).

Ci sembra insomma che, a fronte di leggi scritte male, le interpretazioni, nel tentativo di sanare i danni potenziali, giungano a risultati spericolati, negando quel che sembra davvero evidente.

Ma queste sono solo considerazioni. Per gli operatori del diritto e gli uffici del personale, che già in gran parte applicavano la legge "reinterpretata" dalla Funzione Pubblica, questa della Consulta rappresenta una ulteriore conferma.

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